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Italiani sotto l’Austria

Torna in libreria L’Italia in guerra. 1915-1918: niente sarà come prima, ora nella Universale Economica Feltrinelli Ragazzi. Questo capitolo contiene una specie di autobiografia famigliare.

 

 

Non pochi soldati italiani già combattono nella grande guerra, ben prima del 24 maggio 1915, a centinaia e centinaia di chilometri dall’Italia: nell’esercito austriaco, però. Come sappiamo, infatti, alcune terre di confine abitate da popolazioni italiane appartengono, per diverse ragioni storiche, all’impero austroungarico.

Il Trentino era stato per otto secoli un principato all’interno del Sacro romano impero (e il principe era il vescovo). I suoi dialetti appartengono all’area italiana, ma la sua storia politica è sempre stata separata da quella degli Stati regionali italiani (è per certi versi una situazione simile a quella del Canton Ticino, che dal Cinquecento fa parte della Svizzera).

L’Istria e buona parte della Dalmazia (cioè quelle che oggi sono le coste adriatiche della Slovenia e della Croazia) avevano invece fatto parte per secoli della repubblica di Venezia, e la loro popolazione è in maggioranza italiana sulle coste e nelle città, e slava all’interno e nelle campagne.

Istria e Dalmazia seguono il destino di Venezia, che Napoleone consegna all’impero asburgico nel 1797; al Trentino tocca la stessa sorte alla fine dell’epopea napoleonica, nel 1815. Trieste, invece, è sempre stata una città imperiale, il porto mediterraneo dell’Austria, che faceva concorrenza a Venezia e attirava per la sua importanza commerciale gente di molte nazionalità (che finivano poi tutte per parlare triestino).

Quando l’Austria dichiara guerra alla Serbia, anche i sudditi di lingua italiana sono, come tutti, soggetti agli obblighi militari. Alla fine, i soldati italiani dell’imperial-regio esercito saranno più di 100.000 (e 25.000 di loro non torneranno).

E qui mi piacerebbe avere davvero una macchina del tempo, per andare in cerca di mio nonno Giovanni, il padre di mio padre, 26 anni nel 1914, di Dignano, un paese vicino a Pola, la città più importante dell’Istria. Del nonno Giovanni ho una fotografia in divisa da soldato austriaco; mentre suo cognato Luigi, il fratello di mia nonna, di tre anni più giovane, entrerà volontario nell’esercito italiano per combattere gli austriaci (verrà poi ferito sul monte Podgora).

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Una fotografia di mio nonno Giovanni Birattari e il disegno che ne ha tratto Matteo Berton.

 

Infatti, circa 2000 italiani d’Austria rifiutano la chiamata militare, attraversano il confine, magari – come il trentino Cesare Battisti – fanno un’attiva propaganda interventista, e nel maggio 1915 sono fra i più accesi volontari ad arruolarsi nell’esercito di sua maestà il re Vittorio Emanuele III. Rischiando doppiamente la vita, perché chi cade prigioniero degli austriaci è destinato a un processo per alto tradimento, e alla condanna a morte per impiccagione.

Ma, nel 1914, per tutti quelli che indossano la divisa asburgica (la grande maggioranza) la prima destinazione è la Galizia, a combattere contro i russi. Una canzoncina dell’epoca diceva:

 

E su per la Galizia

e zo per i Carpazzi

vestidi de paiazzi, vestidi de paiazzi,

ne tocherà marciar! a, a,!

 

Cioè: “E su per la Galizia, e giù per i Carpazi, vestiti da pagliacci, ci toccherà marciar”.

Non solo marciare, però. La Galizia è un carnaio: come accade sul fronte occidentale, nelle prime settimane gli eserciti devono imparare come funziona la guerra moderna, e nel frattempo i soldati muoiono come mosche. Per i molti che cadono prigionieri dei russi, comincia un’odissea che, come vedremo, in alcuni casi finirà ben dopo la fine della guerra mondiale.

Quando poi l’Italia dichiara guerra all’Austria, potranno capitare scene come questa, del maggio 1915, in Val d’Astico, al confine fra Veneto e Trentino. Un sergente italiano ordina in tedesco di arrendersi alla guarnigione di un forte austriaco.

 

Me dispias – grida uno degli assediati, in risposta – se avanzé sbarem. Ma perché parlel todesc, sior sergente? El varda che parlem talian anche noi.

 

Cioè: “Mi dispiace, se avanzate spariamo. Ma perché parla tedesco, signor sergente? Guardi che parliamo italiano anche noi”.

E capita anche che decine di migliaia di persone, soprattutto donne, vecchi, bambini e ragazzi, siano costrette a lasciare le proprie case e a trasferirsi in baracche a centinaia di chilometri di distanza, finché la guerra non finirà.

Sono le persone che abitano lungo la linea del fronte, dove si combatte e si uccide, ma non solo. Pola, in Istria, è la più importante base navale della Marina austriaca nell’Adriatico settentrionale, e l’Austria, nel maggio del 1915, decide di svuotare Pola e i paesi vicini, un po’ per far spazio a militari e operai dell’arsenale, un po’ perché teme che la popolazione italiana possa aiutare il nemico o favorire l’infiltrazione di spie.

Questo significa che, con un preavviso brevissimo (perfino poche ore), la gente deve lasciare la propria casa, portandosi dietro magari una valigia da cinque chili al massimo, per salire su carri bestiame e raggiungere, dopo qualche giorno di treno, un campo profughi in Ungheria, in Austria, in Boemia, in qualche luogo dell’impero.

Molti istriani finiscono così a Wagna, in Stiria, dove grandi baracche di legno possono ospitare ciascuna 400 persone. A causa del clima, dell’alimentazione e delle malattie infettive come tifo, difterite, scarlattina, morbillo, la mortalità è molto elevata, soprattutto tra vecchi e bambini: alla fine gli istriani sepolti nel cimitero di Wagna saranno quasi 3000.

Una sorte analoga tocca ai trentini: alla fine, circa 75.000 devono abbandonare le loro case, per Wagna o per campi analoghi in Austria, in Boemia, in Moravia.

 

Impossibile mi riesce a descriverti – scrive al marito soldato una donna trentina dal campo di Braunau, nell’Austria superiore – tutti i dolori di questa partenza, di questo viaggio interminabile. Quante volte ti ho invocato in mio aiuto, quante volte ho pianto disperata. Finalmente il dì dopo su carette tirate da robusti cavalli ci hanno trasportati fin qui, a cinque ore dalla città. Per lavarsi si è costretti a viaggiare mezza ora per trovare una pozza d’acqua. Di viveri poi non si trova niente e non si sa come campare. In certi momenti non so più cosa penso, mi sembra d’esser pazza. Sola con quattro figli, senza tue notizie e cola tema di saperti morto un dì o l’altro, povero caro! se tu sapessi quanto soffro!

 

I profughi vivono come prigionieri. Siccome parlano la stessa lingua dei “traditori” italiani, gli abitanti dei villaggi vicini ai campi diffidano di loro. Col passare del tempo (l’internamento dura fino alla fine della guerra) la loro situazione non fa che peggiorare.

 

Ecce homo! Guardate in che condizioni si trova – dirà al Parlamento austriaco nell’ottobre 1918 Alcide De Gasperi, deputato trentino, 37 anni – il tanto discusso Trentino, guardate voi tirolesi come appare in realtà il tanto odiato Welschtirol [il Tirolo italiano]. Dico con la massima schiettezza: se il Trentino apparterrà all’uno o all’altro Stato, ormai questo lo decideranno le armi. E se noi dovessimo distaccarci da questa unione statale, allora il governo e i partiti tedeschi dovrebbero chiedere alla loro coscienza se non hanno fatto tutto il possibile per renderci più facile questo passo.

 

Prima dello scoppio della guerra, De Gasperi aveva sostenuto che, in caso di referendum, i trentini avrebbero scelto in gran maggioranza di rimanere nell’impero austroungarico. Alla fine, invece, dice che proprio il trattamento subito da parte degli austriaci spingerà i trentini a preferire l’Italia.

Ci sono però anche profughi trentini in Italia: dopo le prime avanzate, l’esercito italiano conquista alcuni territori di frontiera, e gli abitanti devono essere allontanati dalla zona di guerra. Vengono così spediti in Italia centrale, e la loro condizione non è migliore di quella dei profughi finiti in Austria.

 

Siamo partite da Pieve Tesino – scrive una di loro – per 15 giorni, prendendo con noi il poco che si poteva portare, ora son presto due anni, e la biancheria consumata i vestiti laceri, oramai colle bestie in dosso senza denari, e dimenticate da tutti! Quando avevano da farci morire di miseria così lentamente era meglio ci lasciassero lassù sotto il cannone almeno si moriva in un sol colpo.

 

Insomma, su entrambi i lati del fronte la guerra sconvolge l’esistenza dei civili. Figuratevi quella dei soldati.

 

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Le vicissitudini degli italiani sudditi dell’impero asburgico durante la prima guerra mondiale sono raccontate nel libro di Paolo Rumiz, Come cavalli che dormono in piedi, Feltrinelli; le citazioni delle profughe trentine provengono da un saggio di Quinto Antonelli, “Gli italiani in guerra un anno prima dell’Italia”.

Il libro L’Italia in guerra. 1915-1918: niente sarà come prima, uscito da Feltrinelli Kids nel 2015, è entrato adesso nella Universale Economica Feltrinelli Ragazzi (pp. 160, € 10,00). Ringrazio ancora Matteo Berton per i disegni e mio cugino Nino Birattari per la sua preziosa collezione di memorie famigliari.

 

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